Ho letto molti libri di Vito
Teti, un antropologo calabrese che si occupa di letteratura dei luoghi,
argomento di cui sono estremamente appassionato. E’ diventato il mio punto di
riferimento e sebbene i suoi testi raccontino, in modo particolare, i paesi
della Calabria, trovo che gli stessi siano un valido punto di osservazione e di
aiuto per conoscere e capire fenomeni di portata universale.
In questo suo ultimo saggio che
si intitola “La restanza” (Einaudi), Teti ritorna su quelle tematiche a lui care
come la ricerca d’identità attraverso il luogo nativo, l’emigrazione,
l’antropologia dei paesi. Egli dice che noi siamo il luogo in cui siamo nati e
cresciuti e siamo il luogo che abitiamo e da cui a volte fuggiamo, per
necessità. E siamo il luogo che percorriamo e raccontiamo. Restare o partire non
è mai una decisione che si prende a cuor leggero, senza incertezze e
lacerazioni, perché un luogo è un insieme di relazioni umane, di affetti, di
legami talvolta incerti e mutevoli, seppure fondamentali. Il luogo, oltre ad occupare
una posizione geografica, è innanzitutto una costruzione culturale e antropologica
di immagini, di vita e di racconti che abbiamo ereditato, è condivisione e
partecipazione con chi ci vive e con chi ci torna saltuariamente, ma anche con
chi lo ha abbandonato per sempre, a causa di migrazioni e di eventi naturali
funesti come terremoti, frane, alluvioni.
Ognuno vive e resta in un luogo
- paese o città che sia – eppure “restare in paese”, oggi, è percepito come un
modo antiquato di stare al mondo, seppure complementare a quella visione
neoromantica che celebra, invece, la retorica di un mondo salvifico da cercare proprio
nel paese. Ci vorrebbe una più accorta antropologia dei luoghi, sostiene Vito
Teti nel suo libro, capace di immaginare e decidere un diverso modello di
sviluppo, “un nuovo patto sociale e valoriale tra quelli che restano e quelli
che partono, tra quelli che tornano e quelli che arrivano”.
Bisogna capire – ribadisce Teti
– che i piccoli borghi non migliorano e non si rilanciano con gli slogan, non
si rivitalizzano con espedienti pubblicitari come l’arrivo di qualche personaggio
famoso, o con proposte occasionali come la ristrutturazione di qualche casa con
piscina, ma creando condizioni essenziali per consentire a chi vuole restare di
rimanere nel suo paese, per favorire il ritorno a chi è andato via e per ospitare
chi ha maturato la scelta di vivere in un paese, lontano dai rumori e dallo smog.
Far vivere un paese significa ricostruire dei veri legami comunitari, ma questo
non si ottiene attraverso la vendita “a un euro” delle case abbandonate dai
proprietari. Per Vito Teti è una scelta devastante, questa, perché restituisce
l’idea che quella casa non ha nessun valore, e significa quindi svalutare il prezzo
delle case dei residenti che hanno continuato a vivere nel paese. Insomma, è
come svendere la memoria di una comunità.
Come tutti i libri di Vito Teti,
anche questo ripercorre, con una scrittura intima e poetica, alcuni suoi
momenti autobiografici costringendo il lettore ad interrogarsi sul proprio modo
di vivere il tempo e di abitare uno spazio, che sia un paese o una città. Così scrive: “Vivo
nella casa in cui sono nato…e dove sono sempre tornato. Da fuori arrivavano le
voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori, delle donne, degli uomini,
degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Oggi arriva il
silenzio senza colore. Il balcone si affaccia sulla ruga, dentro il paese, sul
pieno di un tempo e sul vuoto di oggi. Anche se tutto è cambiato, tutto è
riconoscibile ed in questa persistenza si consumano il paradosso e lo stigma
del disfacimento. (…) Nel mondo da cui provengo e a cui sono rimasto fedele,
magari a costo di qualche tradimento, ho imparato il valore della fatica, della
solidarietà, delle piccole cose che più tardi ho scoperto, sui libri, essere il
valore della polis, della comunità. Sono uno dei restanti più tenaci e
resistenti tra quelli a me noti, anomalo, perché sono inquieto, amo viaggiare e
cambiare spesso luoghi e contesti. Sono cresciuto a cavallo di tre generazioni
e, contemporaneamente, nel crinale di due età, di due epoche, di due civiltà.
In poco più di un trentennio ho vissuto diecimila anni, dalla nascita delle società
agropastorali al loro inesorabile sparire. Incerto, irrequieto, sospeso, un
tempo immaginavo che sarei vissuto in un mondo nuovo, nella modernità; nella
frenesia di un tempo dinamico. Lo studio appassionato, il vortice delle letture
e i viaggi mi hanno insegnato che il mondo antico dei padri non veniva davvero
sostituito dal mondo nuovo dei figli, anche se tutto quel che resta del passato,
dei ricordi, della vita è sempre più essenziale per orientarmi in questo
universo fragile, insicuro, attraversato da un’idea di futuro sempre meno
definita con l’aumentare delle mie consapevolezze”.