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martedì 18 febbraio 2014

RECENSIONE: Signora Ava di Francesco Jovine (1902-1950)



Al centro della vicenda di questo interessante romanzo troviamo una nobile e decaduta famiglia meridionale – i de Risio – i cui componenti conducono una esistenza alquanto monotona nel loro antico palazzo, ubicato in un piccolo paese molisano, Guardialfiera, lo stesso che aveva dato i natali allo scrittore Francesco Jovine.

Il titolo del romanzo è simbolico, ed è tratto da una tipica espressione molisana “o tiempo de gnora Ava” che alludeva ad un tempo lontano quando la vita reale si mescolava alla superstizione e alla leggenda.
I fatti si svolgono durante il regime borbonico. Nella prima parte del libro l’autore si cala nella vita quotidiana del paese e della famiglia de Risio. Dalle descrizioni che ne fa l’autore, emergono le contraddizioni, le difficoltà, i costumi di una società contadina povera e sfruttata, chiusa nel suo immobilismo. Una società che, attraverso i suoi riti arcaici e le sue consuetudini legate alla tradizione, appare senza nessuna possibilità di riscatto e di speranza. Aleggia nel racconto un sentimento religioso che a volte sembra sfociare nella superstizione, dove leggende e miracoli, santi e fattucchieri vengono visti con la stessa dignità. I personaggi, vere maschere di una commedia tragica, vivono in un mondo chiuso e in lotta tra di loro: da una parte i cafoni e dall’altra i signori del paese. Entrambi vivono un’esistenza miserevole, seppure in maniera diversa.

Il romanzo è popolato da una variegata umanità. Troviamo Don Carlo de Risio, fresco di laurea conseguita a Napoli, che torna nel suo paese natale ancora più ignorante e arrogante, smanioso solo di accasarsi con una donna ricca. Quindi suo fratello Don Giovannino, detto il Colonnello, che aveva aperto una scuola per i giovani galantuomini dei dintorni per prepararli agli esami di belle lettere. Poi il capostipite Don Eutichio, che usa tutti i mezzi per poter sfruttare al meglio i contadini che lavorano le sue terre. E non potevano mancare i preti “che si contendevano le messe, i funerali, le elemosine, i beni delle congreghe, i rimasugli della mensa vescovile”. Tra questi spicca la figura di Don Matteo che, pur essendo mellifluo e untuoso con i galantuomini, condivide con i contadini sofferenze e mortificazioni e vede tutto il mondo pieno di imbroglioni, ipocriti e delinquenti. I contadini, poi, lo seguono di buon grado perché “capivano tutto quello che il prete diceva, perché egli s’esprimeva col loro stesso linguaggio”; mentre il linguaggio dei signori era spesso astruso e incomprensibile. L’altro personaggio significativo del libro è Pietro, il servo di casa de Risio, che, con la sua freschezza giovanile, incarna la sensibilità, l’ingenuità, la gioventù non ancora corrotta, che aspira in un futuro migliore, senza sopraffazioni.

Su questo mondo piatto, dall’apparente sicurezza, dove non succedeva mai nulla e che si trascinava immutabile con le sue miserie e le sue ingiustizie – che poi era il mondo che lo scrittore sentiva raccontare da piccolo accanto al caminetto - scoppia improvvisa “la rivoluzione”, così viene chiamata dai popolani la rivolta contro i Borboni, a cui seguì lo sbarco di Garibaldi con i suoi Mille. “Dapprima fu la semplice notizia che in una parte lontana del Regno il popolo s’era ribellato alle armi del Re: poi si seppe che i soldati del Re avevano vinto contro i galantuomini”. Da qui inizia la seconda parte del libro, che porta con sé violenza, morte e rassegnazione. Ma anche esempi di coraggio civile e di ribellione, di tradimenti e di furberie.

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