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sabato 7 novembre 2015

Il giorno del giudizio



“Scrivo queste pagine che nessuno leggerà, perché spero di avere tanta lucidità da distruggerle prima della mia morte”. Così scriveva Salvatore Satta - uno dei più autorevoli studiosi italiani di Diritto processuale civile - nel 3° capitolo del suo libro “Il giorno del giudizio” ultimato un anno prima della sua morte, avvenuta a Roma nel 1975. Lo scrittore sardo – era nato a Nuoro nel 1902  - evidentemente ebbe modo di riflettere con serena lucidità sul suo estremo proposito e non portò a termine il compito che si era prefisso; e così, chi ama la bella scrittura, ha potuto leggere quelle pagine che lui avrebbe voluto distruggere per sempre.
Ne “Il giorno del giudizio”, considerato il suo capolavoro, Salvatore Satta dipinge un grande affresco storico ed umano sui vizi, le virtù, le miserie, i bisogni  e i desideri di un intero popolo, quello a cui lui stesso apparteneva ed a cui si sentiva legato: la gente della sua Nuoro. Il racconto si svolge, come scrive nel libro, attraverso “onde di ricordi che si accavallano in un assurdo disordine, come se tutta l’esistenza si fosse svolta in un solo istante”, mentre i suoi personaggi – che sono morti ma che il narratore ben conosceva in vita – li fa rivivere nella scrittura, li chiama quasi a raccolta uno ad uno. Uomini e donne di Nuoro, contadini e pastori, notabili e miserabili, notai ed avvocati, preti ed impiegati, ricchi e poveri, sfilano davanti a noi lettori “come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco”. Personaggi che non avevano mai avuto una seppure minima identità e visibilità, che non avevano importanza per nessuno, perché la loro esistenza si riduceva a un atto di nascita e di morte, sembrano quasi chiedere all’autore di essere liberati dai propri affanni e dalle proprie miserie “…tutti si rivolgono a me – scrive l’autore – tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati (…). E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria”.

Un libro che ci parla della vita di un’intera comunità attraverso la morte, perché a Nuoro, quando moriva qualcuno era come se morisse tutto il paese e la vita e la morte erano regolate e scandite dalle campane del borgo, dall’ave squillante del mattino all’ave spiegata della sera, fino ai rintocchi che davano notizia che uno di loro era passato a miglior vita: “nove per gli uomini, sette per le donne, più lenti per i notabili”.
Un libro che mi ricorda, in qualche modo, l’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; infatti, così come il poeta statunitense fa parlare i suoi personaggi sepolti in un piccolo cimitero di un villaggio americano, attraverso componimenti poetici in forma di epitaffi, Salvatore Satta dà voce ai morti della sua terra che potranno finalmente essere ricordati, svela fatti e misfatti di una piccola comunità rurale, la Nuoro della sua infanzia e della sua giovinezza, attraverso un epitaffio funebre in prosa.  Quasi a voler significare che solo la morte può restituire dignità e verità nascoste.

4 commenti:

  1. Mi sembra d'averlo letto...
    Ma forse è passato troppo tempo.

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    1. Il tempo passa, mia cara Euridice!...ma i libri restano. Ciao

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  2. i passaggi in corsivo sono degni di nota, un libro che mi incuriosisce, come sempre recensione di alto livello

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    1. Grazie tads: sei troppo buono, come sempre :-). Buona serata

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