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lunedì 19 dicembre 2016

Che "brutto" tempo che fa



Ho l’impressione che il principale obiettivo della televisione – almeno da un po’ di tempo a questa parte - sia quello di far regredire i telespettatori e renderli sempre più ottusi. Infatti, non capisco perché una trasmissione televisiva, che gode del favore del pubblico e della critica e, in qualche maniera, si discosta da quel format di puro intrattenimento sostenuto dalle televisioni commerciali, possa essere stravolta in peggio, così tanto per dare un segnale di cambiamento. Mi riferisco ad uno di quei programmi che – visto il grande successo che si porta dietro da oltre un decennio – va considerato il vero fiore all’occhiello della  Rai: Che tempo che fa. Fabio Fazio, il deus ex machina del programma, ha il grande merito di aver portato in televisione personalità del mondo della cultura, dello spettacolo e della società civile che vi apparivano solo raramente o, addirittura, si rifiutavano di darsi in pasto al grande pubblico televisivo. Penso a Guido Ceronetti, Gillo Dorfles, Ermanno Olmi, Paolo Poli, Carlo Fruttero, Roberto Saviano, Pietro Citati, tanto per fare qualche nome. Ma l’elenco sarebbe lunghissimo. Devo dire, inoltre, che Fazio è riuscito, con la sua istrionica abilità, ad avere nel suo studio grandi star internazionali che si negavano a tutti tranne che a lui: il “buonista” della televisione di stato - per alcuni - il “fazioso” per altri e il “furbetto”, per altri ancora. Ma diciamolo: il Fabio nazionale ha saputo, con intelligenza, catturare l’attenzione della gente grazie soprattutto all’importanza ed alla forza attraente dei suoi ospiti i quali avevano la capacità di oscurare, finalmente, le solite facce note del piccolo schermo, e sempre le stesse. Chi stava a casa davanti allo schermo aveva la possibilità di ascoltare voci autorevoli, in un contesto dove la leggerezza e la semplicità, mista al divertimento, la facevano da padrone.
Chi guarda, oggi, la trasmissione domenicale di Rai 3, Che tempo che fa, si accorge che non è più quella di una volta in quanto si è sdoppiata e, a prescindere dagli ascolti (forse sono rimasti invariati),  mi sembra che l’incantesimo che si creava tra chi parla in TV e chi ascolta da casa sia ormai finito e che la pochezza abbia preso il posto della qualità. Difatti, dopo un lungo e noiosissimo monologo della Littizzetto nella prima parte della trasmissione (mi domando perché una come lei, senza alcun merito e con quella vocina gracchiante e fastidiosa, con le sue consuete fissazioni sessuali sul walter…sulla jolanda, debba avere tutto quello spazio televisivo), vediamo, nella seconda parte, una eterogenea tavolata a ferro di cavallo, intorno alla quale siedono una decina di “commensali” ridanciani e vocianti (ex vip famosi e dimenticati, personaggi emergenti in attesa di una più alta affermazione, atleti in pensione, ecc), che si danno del tu come vecchi amici e si pavoneggiano soddisfatti. Tra gli ospiti fissi c’è Nino Frassica – per carità, un attore simpaticissimo che ormai è presente ovunque – che si esibisce come un fantomatico direttore di un giornale di gossip infilando, una dietro l’altro, le sue surreali e scontate battute tipiche del suo repertorio. Poi c’è Gigi Marzullo, il quale pone le sue domande improbabili agli ospiti presenti in studio, non per avere uno straccio di risposta – che pure si potrebbe osare, nonostante l’idiozia della domanda - ma per scatenare una scontata risata generale. E, dulcis in fundo, siede a quella tavola l’intellettuale del momento, lo scrittore di best seller più amato dalle nuove generazioni: Fabio Volo. Costui non fa che ridere per tutta la durata della trasmissione. Ride e si scompiscia alle battute di Frassica; ride a crepapelle alle domande insulse di Marzullo; ride anche quando gli si rivolge Fazio, il quale da buon padrone di casa, non nasconde il suo compiacimento per la spensierata compagnia. Insomma, ridono e si divertono tutti, ignari dei tanti telespettatori che li stanno a guardare e che - pagando il canone - vorrebbero ridere o quantomeno sorridere un po’ anche loro, ma non delle loro sghignazzate.

domenica 11 dicembre 2016

Il rosso e il nero di Stendhal



Quando mi trovo al cospetto di un grande romanzo dell’Ottocento, la cui storia si dipana in mille sfaccettature e pone in evidenza tutta la sua complessità narrativa - dalla passione amorosa a quella politica, dalla rappresentazione della società in cui sono calate le vicende alle ambizioni personali del protagonista, dai riferimenti storici, culturali e religiosi all’introspezione psicologica dei personaggi – lo confesso, mi sento decisamente in difficoltà nell’abbozzare due righe che possano dare forma ad una “recensione”. E’ come se improvvisamente mi mancassero le parole e avvertissi un senso di indefinibile inadeguatezza. In tali circostanze, sono spinto a chiedermi cosa potrei mai scrivere di tanto interessante, da catturare l’attenzione dei lettori, che non sia già stato scritto da qualcuno molto più autorevole e qualificato di me. I grandi classici della letteratura mondiale - quelli che non muoiono mai e che vengono continuamente ristampati – mi fanno sentire davvero piccolo e mi trasmettono una strana sensazione: di non essere all’altezza della loro grandezza. Se, poi, il libro non dovesse neppure piacermi ovvero mi trovassi nella condizione di leggerlo con estrema difficoltà - come a volte succede - non potrei mai avere la sfrontatezza di incolpare l’autore senza riconoscere la mia inettitudine.

Ho letto in questi giorni “Il rosso e il nero” di Stendhal, un libro pubblicato nel 1830 e devo dire che il mio stato d’animo di lettore si è scontrato con siffatti pensieri. Diciamo pure che è stato un procedere a singhiozzo nelle oltre 500 pagine del romanzo, tra alti e bassi, tra momenti di entusiasmo e altrettanti di smarrimento.

Julien Sorel, il personaggio principale del libro - intorno al quale ruota tutta la storia - è un giovane di umili origini, però molto scaltro e ambizioso il quale sogna di poter un giorno ricalcare la carriera militare di Napoleone Bonaparte, il suo indiscusso e irraggiungibile mito ( il “rosso” della divisa). Costui comprende che per essere qualcuno nella società del suo tempo (ci troviamo nella seconda decade del 1800), dovrà inizialmente vestire l’abito talare (da qui il “nero”) – vero trampolino di lancio verso il successo - o, quantomeno, avere conoscenze altolocate nell’ambiente clericale. Ma si accorge che tutto ciò non basta, perché al fine di poter migliorare la propria condizione socio-economica e scalare i gradini della casta sociale, il nostro eroe dovrà impegnarsi per essere introdotto negli ambienti politici più forti, avrà l’obbligo sociale di vestire alla moda e di conoscere famiglie aristocratiche. E, proprio in tali occasioni – sfruttando le sue belle maniere e la sua spiccata intelligenza – conquisterà le grazie delle nobildonne che lo ospitano nei loro ricchi palazzi come precettore dei figli. Assistiamo quindi alle gesta di un arrampicatore sociale che di volta in volta – con sentimenti falsi ed egoistici, pur detestando l’ipocrisia del potere – non disdegnerà di vestire i panni del seminarista, del prete, del dandy, dell’amante e dell’innamorato. Ma gli eventi che ne scaturiscono finiranno per travolgerlo.

Secondo Leonardo Sciascia, Julien è un personaggio che Stendhal si porta dentro da sempre. Questa affermazione - ritrovata nella prefazione del libro - mi ha spinto a leggere alcune note biografiche dell’autore da cui si evince che lo scrittore francese era uno spirito libero e anticonformista, che disprezzava le convenzioni sociali e la società del suo tempo, che amava viaggiare ed era un profondo conoscitore dell’arte, che non aveva un buon rapporto con la città natale e, soprattutto, ho appreso che era un inguaribile seduttore ed un tenace sostenitore di Napoleone. Caratteristiche, queste, che si ritrovano – tutte – nel personaggio che esce dalla sua penna. E allora appare chiaro che Stendhal, attraverso Julien, voglia rappresentare se stesso, la sua storia e i suoi sentimenti. Correggendo, in qualche maniera, i suoi vizi e celebrando senza sotterfugi le sue virtù.