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venerdì 26 maggio 2017

Ultimi viaggi nell'Italia perduta



“ Non ci è permesso, ahimè, tornare nei luoghi che abbiamo amato,
essi non sono più quelli della prima volta, non saranno mai più quelli”

 
Raffaele La Capria - con i suoi 95 anni ben portati – è certamente uno dei “grandi vecchi” della letteratura italiana. Un fine intellettuale d’altri tempi, un gentiluomo colto e raffinato dall’eloquio accattivante; con quella sua leggera e amabile inflessione partenopea non mi stancherei mai di ascoltarlo. E’ uno di quei rari autori contemporanei che scrive come parla e si legge con grande piacere.

Il suo ultimo libro, edito da Bompiani, si intitola “Ultimi viaggi nell’Italia perduta”. Un testo  intriso di leggera malinconia e di malcelato rimpianto, con cui rievoca quei “sacri siti” dell’Italia Meridionale, quei luoghi mitici che più ha amato nel corso della sua lunga vita e che “non sono più quelli della prima volta, non saranno mai più quelli”, perché assaliti e divorati da un esercito di turisti “mordi e fuggi”, nonché da selvaggi interventi urbanistici che hanno snaturato e deturpato la loro identità. Erano luoghi che sembravano immutabili, ma in questi ultimi anni “sono stati sovvertiti, sconquassati o addirittura cancellati dalla faccia della terra”. In primis, ricorda la sua amata Capri, dove “gli imperatori Augusto e Tiberio, signori del mondo, ne fecero il loro rifugio prediletto…dove la Natura e la Bellezza si incontrano, dove il Mito e la Storia ci parlano ancora”. E poi Positano che “era una bellezza assoluta e grandiosa, prometeica, e al di fuori della portata dell’uomo”. Senza dimenticare Ischia, che purtroppo ha perduto “la bellezza primigenia delle spiagge…spiagge oggi banalizzate da una balneazione avvilente”. E poi ancora Procida… la costiera amalfitana con i suoi borghi a picco sul mare… la sua Napoli ormai scomparsa e le località più prestigiose della Calabria e della Sicilia.  La Capria ne parla in prima persona con nostalgia e ci tiene a precisare che il suo stato d’animo “non è più un sentimento romantico abbellito dal ricordo ma un’arma della memoria contro la rassegnazione e il disincanto, e serve a non lasciar andare le cose come vanno, cioè verso l’inesorabile degrado” .

Belle, poi, sono le pagine che lo scrittore partenopeo dedica alla sua “estate caprese”, che lui trascorreva in quella piccola casa ai piedi del Monte Solaro, raggiungibile solo attraverso 150 ripidi scalini, dove lui poteva vivere per giorni e giorni come in un eremo in perfetta solitudine. Dedica parole struggenti e indimenticabili a questi luoghi dell’anima dove giunsero (Gran Tour) tutti i grandi scrittori e artisti del secolo scorso i quali, poi - affascinati dalla bellezza dei posti - scrissero le loro impressioni, creando una vera e propria letteratura di viaggi. La Capria ricorda Gissing, il quale era convinto che la modernità avrebbe distrutto l’autenticità dei luoghi, inaugurando l’era “della somiglianza universale” e prosegue con Norman Douglas, Giovanni Comisso, uno degli ultimi cantori dell’Italia che fu, Giuseppe Ungaretti, Curzio Malaparte, Norman Lewis, Cesare Brandi, che considerava il Golfo di Napoli come “la porta celeste dell’Italia” e che assisteva impotente “all’autodistruzione che l’Italia va facendo di se stessa”. E poi Moravia, Elsa Morante, Guido Ceronetti, uno degli ultimi viaggiatori dei tempi moderni.
Solo chi conserva il ricordo del passato può fare il raffronto tra i luoghi di una volta e quelli di oggi, “nati dal rapporto sbagliato fra tradizione e modernità, cultura e classe dirigente”. E’ proprio questo intreccio perverso tra affarismo, politica e incultura misto a indifferenza, la causa prima degli obbrobri edilizi che stanno sfigurando i luoghi più belli d’Italia, cancellandone l’anima e l’incanto.
Un libro godibile, che si legge tutto d’un fiato.

martedì 23 maggio 2017

Quando il cinema incontra la poesia



Diventata famosa grazie ad una scena molto commovente del film “Quattro matrimoni e un funerale” , la poesia “Funeral blues” del poeta britannico W. H. Auden (1907 – 1973) è un canto, dai toni malinconici, dedicato alla persona amata che se ne è andata via per sempre. E’ un lamento disperato e inconsolabile sulla difficoltà di accettare e affrontare la morte. Eppure, i suoi versi così tristi hanno la straordinaria capacità di apparire come l’ unico conforto per il poeta.

Funeral blues

Fermate gli orologi, tagliate i fili del telefono 
e regalate un osso al cane, affinché non abbai. 
Faccia silenzio il pianoforte, tacciano i risonanti tamburi, 
che avanzi la bara, che vengano gli amici dolenti. 

Lasciate che gli aerei volteggino nel cielo 
e scrivano l'odioso messaggio: lui è morto. 
Guarnite di crespo il collo bianco dei piccioni 
e fate che il vigile urbano indossi lunghi guanti neri. 

Lui era il mio nord, era il mio sud, era l'oriente e l'occidente, 
i miei giorni di lavoro, i miei giorni di festa, 
era il mezzodì, la mezzanotte, la mia musica, le mie parole. 
Credevo che l'amore potesse durare per sempre. Beh, era un'illusione. 

Offuscate tutte le stelle, perché non le vuole più nessuno. 
Buttate via la luna, tirate giù il sole, 
svuotate gli oceani e abbattete gli alberi. 
Perché da questo momento niente servirà più a niente.
W. H. Auden

venerdì 19 maggio 2017

Giovanni Boldini, il ritrattista della "Belle Epoque"

ritratto lady Colin Campbell


Io credo che nessun artista,  meglio del pittore ferrarese Giovanni Boldini, abbia saputo interpretare i gusti e i desideri dell’aristocrazia europea, durante quel particolare periodo storico ed artistico che va sotto il nome di “Belle Epoque”, negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Un periodo caratterizzato da prosperità e rinnovamento culturale, condizioni queste che trasparivano soprattutto nelle grandi capitali europee, ed in particolar modo nella capitale francese dove, appunto, era stata coniata la felice espressione di “epoca bella”. Era la Parigi di fine Ottocento - crocevia di artisti e letterati, (spesso squattrinati) in cerca di successo - con i suoi boulevards, con i suoi ricchi caffè all’aperto, dove era possibile incontrare le celebrità del tempo, con i suoi musei, con i suoi ristoranti e salotti eleganti; una città frizzante, piena di vita e di arte che non poteva non attrarre l’irrequieto e cosmopolita artista italiano.
Boldini giunse a Parigi nel 1871, per rimanervi fino alla sua morte avvenuta nel 1931. Egli - in breve tempo – sfruttando le sue indiscusse qualità artistiche ed inserendosi abilmente negli ambienti più esclusivi di Parigi, riuscì a legittimare il proprio successo professionale diventando l’indiscusso cantore di quella società blasonata e opulenta, i cui degni rappresentanti facevano a gara per farsi ritrarre da lui. E lui – il piccolo uomo (era alto solo 1 metro e 54 cm.) ma grande artista, esaudiva ogni loro richiesta, con maestria e con eleganza, dipingendo ogni aspetto della vita parigina, pur prediligendo i ritratti.

Il risultato è testimoniato dalla bellissima mostra allestita presso il Vittoriano di Roma, dove sono esposti oltre 150 dipinti - rappresentativi dell’arte pittorica di Boldini e di alcuni rilevanti artisti, suoi contemporanei, come Corcos, De Nittis, Signorini, Zandomeneghi ed altri - provenienti dai più importanti musei europei e da numerose collezioni private. Io credo che siano soprattutto le donne, affascinanti e sensuali, nude in pose provocanti o avvolte in abiti lussuosi, il soggetto prediletto dei quadri di Boldini e la maggiore attrattiva della mostra. Se dovessi scegliere i tre ritratti che più hanno colpito la mia immaginazione - per la sensualità e l’eleganza che esprimono oltre che per la capacità di introspezione psicologica impressa da Boldini  sulla tela - non avrei dubbi: il primo è il ritratto della statuaria e bellissima lady Colin Campbell, giornalista e scrittrice irlandese: meravigliosamente seducente; il secondo, la grande tela dedicata a “Donna Franca” - così chiamata da Gabriele D’annunzio (mentre per i siciliani era semplicemente la regina) – una giovane signora dal fascino straripante, moglie dell’industriale siciliano Ignazio Florio, che commissionò il ritratto. Si racconta che, a lavoro ultimato, Don Ignazio rifiutò sdegnosamente il quadro perché la moglie vi appariva troppo sensuale, intimando a Boldini di modificarlo.
ritratto Donna Franca Florio
Come dire che a volte la pittura – come d’altronde la parola - può colpire e ferire più della spada. E poi c’è il celeberrimo ritratto di Giuseppe Verdi, vera icona dell’immaginario collettivo. Tu lo guardi, incantato, e ti sembra di sentire, in lontananza, un coro sommesso ed elegiaco: “va, pensiero, sull’ali dorate…”. La potenza dell’arte!
ritratto Giuseppe Verdi
 

lunedì 8 maggio 2017

Essere sfiorati dalla morte



Vincitore del Premio Viareggio nel 1977 – anno in cui fu pubblicato per la prima volta da Rizzoli – il romanzo Veder l’erba dalla parte delle radici” ripercorre, a ritroso, la vita dello scrittore, giornalista e politico piemontese Davide Lajolo (nato a Vinchio nel 1912 e morto a Milano nel 1984). La voce narrante è quella dello stesso autore: proviene dal letto di una clinica romana, dove era stato ricoverato a seguito di un infarto. Oltre che una sofferta vicenda personale, il racconto è anche un insieme di illuminanti riflessioni sulla malattia e sulla morte, sull’amicizia e sulla famiglia, sulle passioni, sugli ideali politici e sul potere, che generano dubbi e scalfiscono certezze, stimolando interrogativi su quelli che sono i veri valori dell’umana esistenza.

"Di vita ne avevo vissuta tanta, e non avevo perso un giorno - scrive l’autore nel suo libro - non avevo mai lasciato impigrire né il sentimento né la ragione, avevo imparato a vivere, conosciuto il mondo, avevo attraversato tutto quello che un uomo attivo può attraversare”. Poi, all’improvviso, quell’uomo di umili origini, che aveva dapprima abbracciato la propaganda fascista per poi allontanarsene e passare alla lotta partigiana, che era passato da un campo di battaglia all’altro durante la seconda guerra mondiale, che aveva conosciuto grandi condottieri di uomini come Togliatti, Mao Tse Tung, Ciu-En-Laj, che aveva incrociato le sue idee con i più grandi letterati del suo tempo come Cesare Pavese, Alfonso Gatto, Carlo Levi, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Sartre e tanti altri, che aveva portato avanti le sue battaglie politiche occupando un posto rilevante alla Camera dei Deputati, che aveva diretto un grande giornale come l’Unità, all’improvviso, quell’uomo di 55 anni, viene aggredito dalla malattia e sfiorato dalla morte.

E allora, proprio quando si è in un letto d’ospedale, quando si ha la sfortuna di avere un incontro ravvicinato con la morte, ci si rende conto di come la vita sia un dono inestimabile, non sempre apprezzato e custodito come si dovrebbe. La malattia ti permette di vedere il mondo rovesciato, un modo per vederlo meglio anche negli interstizi. “Prima osservavo l’erba che spunta fuori - dice Lajolo - ora sono riuscito a vederla dalla parte delle radici nascoste nella terra”. Forse solo quando la vita è legata ad un filo e la malattia ti rende nuovamente bambino, si riesce a guardare e giudicare gli uomini e le cose con vero distacco, con quella lucidità di pensiero che in altre occasioni viene offuscata dall’odio, dagli opportunismi, dagli interessi, dalla cattiveria; la malattia acuisce la sensibilità, ti trasporta in una diversa dimensione, ti eleva al di sopra delle miserie umane.

Scorrendo le pagine del libro, si ha come la sensazione che la paura del protagonista per la sua infermità si mescoli all’ orrore della guerra, che lui rivive come in un sogno, quella guerra che mandava gli uomini a morire in terre lontane per cercare chissà quale impossibile impero. Ricordi e fantasmi tornano a fargli ripercorrere le tappe della vita. Nel deliquio spuntano da una lontananza infinita i ricordi del suo amato paese (Vinchio), custode geloso dei suoi affetti familiari e della sua fanciullezza. “Come mi incantava il mio paese...in quel letto bianco della clinica anche soltanto nell’onda di quei ricordi tornavo a sentire il sapore dolce e amaro della mia terra. Allora voleva dire che c’era ancora un filo di speranza: non potevo morire”. Lo scrittore rivive i suoi innumerevoli viaggi nelle capitali di tutto il mondo: Mosca, Pechino, Calcutta....Riaffiorano nella sua memoria gli amici, i colleghi di lavoro, la sua attività politica. Ripensa alle migliaia di libri letti, soffermandosi su quelli che gli avevano dato di più. E riscopre le piccole cose dell’esistenza, con caparbietà, con forza, con ottimismo. Un libro molto intenso, dolce e amaro nello stesso tempo, che ci parla della malattia e della morte, per raccontarci la vita.