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venerdì 28 febbraio 2014

RECENSIONE: "Il Cappotto di astrakan" di Piero Chiara (1913 - 1986)



Continua, con sommo piacere, la lettura di quei romanzi un po’ dimenticati dagli editori e dalla critica i cui autori – spesso - sono da considerare tra i grandi della nostra letteratura del ‘900. E’ la volta del “Cappotto di astrakan” scritto da Piero Chiara nel 1978, lo scrittore di Luino, in provincia di Varese, che in tutte le sue opere raccontò quella provincia lombarda, un po’  sonnacchiosa e oziosa, affacciata sulle rive del lago Maggiore. Egli, evidentemente, si sentiva parte integrante di quel territorio, dove trascorse gran parte della sua esistenza, tant’è che i protagonisti che incontriamo nelle pagine dei suoi libri sembrano davvero le sue controfigure, ossia personaggi solitari e disincantati, amanti dell’ozio e dei ritmi lenti e abitudinari che solo la provincia sa restituire.
 
Ma il provinciale che viveva su lago Maggiore, ogni tanto, amava anche fare un viaggio all’estero, abbandonare momentaneamente il tran tran della periferia, le certezze in cui era immerso tutti i giorni, non fosse altro che per poter raccontare agli amici rimasti al paese – al ritorno - le bellezze viste e le avventure vissute in terra straniera; ma anche per suscitare la loro invidia e, soprattutto, per darsi una certa importanza, soddisfacendo così quell’innato bisogno di vanità. E qual era la città europea, nella metà degli anni cinquanta, che meglio si adattava a questo desiderio di evasione e di avventura? Questa città non poteva che essere Parigi. Con i suoi meravigliosi viali, i suoi caffè all’aperto, i suoi locali notturni come le Folies-Bergère. “Andare a Parigi era a quell’epoca, ed è stato sempre, come darsi a un mestiere, a una professione o a un corso di studi. Vivere in quella gran città voleva dire imparare, capire il mondo, fiutare il vento. L’avervi passato qualche anno e magari soltanto qualche mese, poteva dare gloria per tutta la vita anche a un tipo qualunque, solo che avesse saputo raccontare le sue gesta, immancabili, perché nessuno poteva vivere a Parigi senza capitare dentro casi e vicende degne di venir raccontate”. Così scrive l’autore nel suo libro.
 
E così quel tipo qualunque che veniva dal Lago Maggiore e che “portava indosso, come tutti quelli cresciuti in un paese, una crosta di rustichezza” parte alla conquista di Parigi, “quella Mecca alla quale ogni uomo dovrebbe andare pellegrino almeno una volta nella vita”.
Il nostro personaggio vive la sua avventura in terra straniera, rimane come intrappolato in una strana e incredibile vicenda che lo invoglierà a ritornare al suo paese, su quelle sponde del lago dove era nato, dove il tempo stagnava, dove anche la noia era sopportabile e dove non sarebbe stato mai solo, perché ad ogni passo avrebbe incontrato un amico con cui andare in barca, giocare a carte o a biliardo,senza andare in giro a correre rischi.

Con una prosa brillante ed ironica, elegante e colta, Piero Chiara dipinge un mondo che ormai sembra scomparso, ma che emerge prepotentemente nel ricordo di chi quel mondo l’ha vissuto.
(letto nel maggio 2013)

lunedì 24 febbraio 2014

Nobili palazzi decaduti

Riporto di seguito un mio articolo già pubblicato sulla rivista on-line "La Mandragola" disponibile al link  http://www.lamandragola.org/?p=1801#more-1801


Molti paesi del Cilento – pur presentando un patrimonio artistico-architettonico di notevole pregio – non riescono ad esprimere una politica culturale degna di questo nome, essendo privi di iniziative e progetti volti a valorizzare le ricchezze storiche che si ritrovano. Spesso, non sanno andare oltre le immancabili sagre enogastronomiche estive, concentrate su degustazioni di prodotti tipici del territorio, inserite all’interno di pseudo percorsi storico-culturali.

Devo dire che non sono un assiduo frequentatore di queste feste mangerecce all’aperto, non seguo sempre la sagra delle zeppole né quella delle melanzane “mbuttunate” (di cui sono comunque ghiotto). Auspicherei che il richiamo a visitare un determinato paese fosse rivolto, qualche volta, all’aspetto culturale e non necessariamente a quello culinario, camuffato da percorso culturale. Sia ben chiaro che le eccezioni non mancano. Esistono sul territorio cilentano importanti appuntamenti culturali, ormai consolidati, che rappresentano un ottimo volano  per il rilancio del turismo e della cultura in tutto il circondario.

Sappiamo bene che il Cilento è costituito da oltre cento piccoli e medi comuni, ognuno dei quali annovera tra i propri tesori, palazzi nobiliari e antiche dimore caratterizzanti epoche anche diverse – per lo più di proprietà privata – che versano in cattive condizioni e non sono aperti al pubblico. Sarebbero, inoltre, necessari programmi di intervento molto intensi finalizzati al recupero dei centri storici attraverso un appropriato arredo urbano ed una migliore ottimizzazione degli spazi pubblici.

Non dobbiamo dimenticare che il Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano è patrimonio dell’Unesco per le sue bellezze naturali, ma anche per i suoi beni architettonici incastonati all’interno del suo meraviglioso scenario naturale. Pertanto, chi di dovere – in primis le amministrazioni locali – dovrà adoperarsi affinché il territorio venga adeguatamente protetto e non esca, quindi, dall’elenco dei siti mondiali tutelati.

Vorrei dire – senza fare alcuna polemica, ma solo per attirare l’attenzione su un problema molto importante – che chi amministra la “cosa pubblica” non dovrebbe mostrare indifferenza nei confronti di quegli edifici storici, che spesso caratterizzano il luogo, adducendo come scusa (almeno così credo) il fatto che gli stessi edifici siano di proprietà privata. Insomma non si può continuare a sfruttare l’immagine di un palazzo o di un castello, simboli del paese, e poi dimenticarsene; non si può catturare l’attenzione del visitatore con quella bella foto riportata su tutti i depliant, e poi deluderlo, senza dargli la possibilità di approfondire quella conoscenza storica.

L’obiezione che si fa è nota: ma quelle sono strutture private, a volte completamente chiuse e abbandonate da anni dagli stessi proprietari; quindi come si può mai pensare di poterle utilizzare per scopi pubblici e culturali?
Detta così la cosa sembrerebbe ineccepibile.
Però bisogna sforzarsi…prendere iniziative…non lasciarsi vincere dalle iniziali difficoltà; mi piacerebbe immaginare una maggiore collaborazione tra i Comuni interessati e i proprietari dei beni finalizzata al recupero di antiche dimore, veri scrigni della memoria storica dei luoghi di appartenenza.

Elevare culturalmente un paese significa, essenzialmente, far maturare in ogni suo abitante consapevolezza e sensibilità, affinché possa comprendere e apprezzare la bellezza del patrimonio che gli appartiene. E gli antichi palazzi signorili di cui sono costellati tutti i paesi del Cilento – per quanto siano di proprietà privata – appartengono idealmente anche ai cittadini tutti. Vorrei che i Cilentani potessero andare fieri dei loro austeri palazzi che dominano le colline su cui sorgono, a testimonianza dei fasti di un antico e nobile passato.

Non so bene quali e quanti complessi architettonici, ricadenti nei vari Comuni del Cilento, siano assoggettati al controllo della Soprintendenza dei beni artistici della provincia di Salerno e, quindi, alla sua tutela e alla sua valorizzazione. Io mi auguro che il supremo organo ministeriale vigili ed impedisca che tale patrimonio possa degradarsi definitivamente nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale.

Perché oggi, la prima impressione che un visitatore ne trae – osservando queste residenze che hanno ospitato nel passato marchesi e baroni, signori del territorio (sappiamo bene che ogni borgo ha il suo palazzo storico) – è quella del degrado e dell’incuria: basterebbe, per renderli accettabili almeno esternamente e far risaltare così quell’aura di nobiltà, che venissero liberati dai rovi e dalle sterpaglie da cui sono spesso avviluppati; acquisterebbero una immediata dignità, a prescindere da una loro eventuale futura fruibilità. E sarebbe il primo significativo passo verso la conservazione

giovedì 20 febbraio 2014

Gli idioti


Abbiamo finalmente saputo da degni rappresentanti della cosiddetta politica che gli idioti, in questo paese, si dividono in due grosse categorie: gli utili e gli inutili. Gli utili idioti fanno parte della maggioranza che governa l’Italia, mentre quelli inutili si danno da fare per ritornare in quella stessa maggioranza che li ha visti protagonisti nel recente passato. Insomma, stanno studiando per poter passare alla categoria superiore, quella degli utili idioti. C’è da dire, comunque, che le due categorie – nonostante le apparenti diversità riscontrabili solo nell’aggettivo – si equivalgono per incompetenza, per cinismo e per cialtroneria.
La nostra è una società democratica, dove tutti sono ugualmente idioti. Quindi non è vera la maldicenza secondo la quale in Italia non c’è democrazia. Gli idioti, in politica, stanno sia a destra che a sinistra, sia al centro che in quello spazio indefinibile che viene occupato da tutti gli altri partiti.

Finalmente qualcuno, credendo di offendere gli avversari politici, si è autoproclamato idiota, dando nel contempo la patente di idiota a tutti gli altri che bivaccano e tirano a campare – ormai da anni - nei partiti, nel governo e nel parlamento, pagati profumatamente con i soldi nostri. Costoro si nutrono di risorse pubbliche e di promesse, di annunci roboanti e di menzogne e si caratterizzano per non aver mai lavorato un giorno in vita loro.

Ma non crediate che gli idioti attecchiscano solo in politica! Abbondano anche nella cosiddetta società civile: che è sempre meno civile, basta guardarsi un po’ i giro. E se in politica gli idioti sono utili/inutili, nella nostra quotidianità sono idioti e basta. E una società di idioti non può che proliferare sempre di più e generare nuovi idioti, a loro immagine e somiglianza.
La stupidità, purtroppo, è una delle più gravi malattie dei nostri giorni: è una malattia infettiva. Infatti un idiota non può che associarsi con un idiota e circondarsi di idioti. Naturalmente un idiota ama anche cingersi di oggetti idioti e seguire le mode idiote: capita così di vedere i proprietari dei suv che usano esclusivamente in città quel mezzo che li “eleva” e che parcheggiano solo sulle strisce pedonali. Altri si riconoscono facilmente per strada: stanno sempre con il telefonino, ultimo modello, incollato all’orecchio ed urlano le loro amenità per far sapere, a coloro che non li avessero individuati, quanto sono idioti. E poi l’avete mai visti quei signori di una certa età, con la pancetta, che vanno in giro in tuta griffata, con le scarpe della nike e portano in giro sui loro corpi tatuati frasi o disegni idioti? E che dire di quelli che stanno in fila due giorni di seguito (giorno e notte) per accaparrarsi  il nuovo modello di iphone e poterlo mostrare compiaciuti ai loro amici idioti ? Non parliamo, poi, degli idioti da stadio, che inalberano sugli spalti vessilli idioti e scaricano le proprie frustrazioni con atti di violenza. E mi fermo qui: l’elenco sarebbe troppo lungo.
Naturalmente una società di idioti non può che riconoscersi in una televisione idiota, che li tranquillizzi e li faccia sentire sempre a proprio agio: assistiamo quindi ai concorsi per miss idiota, ai festival degli idioti, ai quiz e alle sfide per idioti ai talk show frequentati sempre dalle stesse facce da idiota, sia di destra che di sinistra (la par condicio è d’obbligo) che si confrontano (si fa per dire) in sterili dibattiti dove la verità e la menzogna hanno pari dignità.
Intanto le persone intelligenti vengono emarginate. E soffrono. Gli idioti invece vengono premiati. E sono felici.

“Molta sapienza molto affanno. Chi accresce il sapere, aumenta il dolore”. Così dice Qoèlet.
Ma per essere ricchi e felici in questa nostra società bisogna essere idioti ?

martedì 18 febbraio 2014

RECENSIONE: Signora Ava di Francesco Jovine (1902-1950)



Al centro della vicenda di questo interessante romanzo troviamo una nobile e decaduta famiglia meridionale – i de Risio – i cui componenti conducono una esistenza alquanto monotona nel loro antico palazzo, ubicato in un piccolo paese molisano, Guardialfiera, lo stesso che aveva dato i natali allo scrittore Francesco Jovine.

Il titolo del romanzo è simbolico, ed è tratto da una tipica espressione molisana “o tiempo de gnora Ava” che alludeva ad un tempo lontano quando la vita reale si mescolava alla superstizione e alla leggenda.
I fatti si svolgono durante il regime borbonico. Nella prima parte del libro l’autore si cala nella vita quotidiana del paese e della famiglia de Risio. Dalle descrizioni che ne fa l’autore, emergono le contraddizioni, le difficoltà, i costumi di una società contadina povera e sfruttata, chiusa nel suo immobilismo. Una società che, attraverso i suoi riti arcaici e le sue consuetudini legate alla tradizione, appare senza nessuna possibilità di riscatto e di speranza. Aleggia nel racconto un sentimento religioso che a volte sembra sfociare nella superstizione, dove leggende e miracoli, santi e fattucchieri vengono visti con la stessa dignità. I personaggi, vere maschere di una commedia tragica, vivono in un mondo chiuso e in lotta tra di loro: da una parte i cafoni e dall’altra i signori del paese. Entrambi vivono un’esistenza miserevole, seppure in maniera diversa.

Il romanzo è popolato da una variegata umanità. Troviamo Don Carlo de Risio, fresco di laurea conseguita a Napoli, che torna nel suo paese natale ancora più ignorante e arrogante, smanioso solo di accasarsi con una donna ricca. Quindi suo fratello Don Giovannino, detto il Colonnello, che aveva aperto una scuola per i giovani galantuomini dei dintorni per prepararli agli esami di belle lettere. Poi il capostipite Don Eutichio, che usa tutti i mezzi per poter sfruttare al meglio i contadini che lavorano le sue terre. E non potevano mancare i preti “che si contendevano le messe, i funerali, le elemosine, i beni delle congreghe, i rimasugli della mensa vescovile”. Tra questi spicca la figura di Don Matteo che, pur essendo mellifluo e untuoso con i galantuomini, condivide con i contadini sofferenze e mortificazioni e vede tutto il mondo pieno di imbroglioni, ipocriti e delinquenti. I contadini, poi, lo seguono di buon grado perché “capivano tutto quello che il prete diceva, perché egli s’esprimeva col loro stesso linguaggio”; mentre il linguaggio dei signori era spesso astruso e incomprensibile. L’altro personaggio significativo del libro è Pietro, il servo di casa de Risio, che, con la sua freschezza giovanile, incarna la sensibilità, l’ingenuità, la gioventù non ancora corrotta, che aspira in un futuro migliore, senza sopraffazioni.

Su questo mondo piatto, dall’apparente sicurezza, dove non succedeva mai nulla e che si trascinava immutabile con le sue miserie e le sue ingiustizie – che poi era il mondo che lo scrittore sentiva raccontare da piccolo accanto al caminetto - scoppia improvvisa “la rivoluzione”, così viene chiamata dai popolani la rivolta contro i Borboni, a cui seguì lo sbarco di Garibaldi con i suoi Mille. “Dapprima fu la semplice notizia che in una parte lontana del Regno il popolo s’era ribellato alle armi del Re: poi si seppe che i soldati del Re avevano vinto contro i galantuomini”. Da qui inizia la seconda parte del libro, che porta con sé violenza, morte e rassegnazione. Ma anche esempi di coraggio civile e di ribellione, di tradimenti e di furberie.

venerdì 14 febbraio 2014

Ubriacatevi!



Bisogna sempre essere ubriachi. Tutto qui: è l'unico problema. Per non sentire l'orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena e vi tiene a terra, dovete ubriacarvi senza tregua. Ma di che cosa? Di vino, poesia o di virtù : come vi pare. Ma ubriacatevi. E se talvolta, sui gradini di un palazzo, sull’erba verde di un fosso, nella tetra solitudine della vostra stanza, vi risvegliate perché l’ebbrezza è diminuita o scomparsa, chiedete al vento, alle stelle, agli uccelli, all'orologio, a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme, a tutto ciò che scorre, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla, chiedete che ora è; e il vento, le onde, le stelle, gli uccelli, l'orologio, vi risponderanno: "E' ora di ubriacarsi! Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù , come vi pare"

 

(C. Baudelaire)

 

mercoledì 5 febbraio 2014

Quando l'orto era un giardino



Un tempo, diciamo una cinquantina d’anni fa, in ogni paese del Cilento ognuno aveva il suo piccolo orto, accanto alla propria abitazione. Forse tutt’ora è così, nonostante il cemento stia avanzando. Quest’orticello era costituito, il più delle volte, da un fazzoletto di terra coltivato a pomodori, patate, zucchine ecc. Spesso vi si trovavano anche alberi da frutta: aranci, cachi, qualche melo. Serviva per le esigenze familiari: le verdure a quei tempi non si compravano, ma si autoproducevano e la frutta era sempre quella di stagione. Verdura e frutta bastavano ed era anche di ottima qualità.

Ricordo che mio padre – unico nel paese – non possedeva un orto dietro casa; però era proprietario di un terreno (la campagna), dove lui si recava tutti i giorni a coltivare, tra le altre cose, anche il suo orticello.

Ricordo ancora – allora potevo avere una decina di anni – che nei pressi della nostra casa c’era un bell’orto con tanti alberi di aranci e mandarini, però da tutti, nel paese, era conosciuto come “il giardino”. Non riuscivo a capire come mai il terreno accanto alla casa di mio zio fosse un orto e l’altro, lì vicino, un giardino. Eppure avevano le stesse caratteristiche, vi si piantavano gli stessi ortaggi, c’erano gli stessi alberi. Addirittura  la stessa varietà  di rose, che ingentiliva un po’ il terreno.

Se non ci fossero stati altri orti nel paese, avrei considerato come tale solo quello che si faceva in campagna, lontano dal centro abitato. Invece ognuno aveva il suo piccolo orto davanti casa. E allora come si spiegava quella anomalia? Come mai quel giardino tra tanti orti?

La mia curiosità fu soddisfatta da mio padre allorquando, incalzato dalla mia domanda, mi rispose che l’orto appartiene ai poveri, ai contadini. E mio padre era un contadino, come tutti gli altri del paese. Il giardino, invece, era di proprietà di un “signore”. E il signore non coltiva l’orto ma si dedica al giardino.

Insomma, a quei tempi, l’orto evocava la fatica, il sudore della fronte. Fare l’orto significava zappare la terra, sporcarsi le scarpe, avere i calli alle mani. Il giardino, al contrario, era sinonimo di bellezza, nobiltà d’animo, richiamava alla mente persone colte, celebrava il lusso e la ricchezza.

In altre parole, l’orto incarnava la subordinazione, una condizione di inferiorità, il giardino era visto come il potere dominante, rappresentava il padrone, il signore. E il signore del paese poteva essere il maestro elementare o il farmacista, il medico o l’avvocato, il maresciallo dei carabinieri o il sindaco. I giardini, quindi, erano proporzionali ai signori e tutti gli altri erano orti e contadini.

Ho letto recentemente che Michelle Obama, la moglie del Presidente degli Stati Uniti, coltiva un orto alla Casa Bianca. Si un orto... non un giardino. Possibile! La donna più potente della terra pianta insalate, patate e cavolfiori?

Come cambiano i tempi!! Il mondo si è proprio capovolto!

martedì 4 febbraio 2014

Indifferenza


L’indifferenza è uno dei mali peggiori della nostra società. Essere indifferenti significa abdicare alla propria intelligenza, significa essere vigliacchi e parassiti. Significa essere privi di volontà. L’indifferenza è un tarlo che opera passivamente, che corrode in silenzio.

Elie Wiesel, premio nobel per la pace nel 1986, scriveva:

Sono molte le atrocità
nel mondo e moltissimi
i pericoli:
Ma di una cosa
sono certo:
il male peggiore è l’indifferenza.

Il contrario dell’amore
non è l’odio, ma l’indifferenza;
il contrario della vita
non è la morte, ma l’indifferenza;
il contrario dell’intelligenza
non è la stupidità, ma l’indifferenza.

E’ contro di essa che bisogna
combattere con tutte
le proprie forze.

E per farlo un’arma
esiste: l’educazione.

Bisogna praticarla, diffonderla,
condividerla, esercitarla
sempre e dovunque.

Non arrendersi mai.

 

sabato 1 febbraio 2014

RECENSIONE: "Le parole del silenzio" di Michele Prisco (1920 - 2003)


Cristina, pur amando suo marito Stefano – da cui aveva avuto una figlia (Daniela) - non aveva cessato mai d’amare anche Graziano,  fratello di Stefano, il suo primo amore. “Stefano era passato da cognato a marito e Graziano da fidanzato a cognato”. I due fratelli erano molto diversi l’uno dall’altro, non si somigliavano affatto: il primo era brillante, estroverso, sicuro di sé; Graziano invece era debole, anche di carattere, un temperamento mite, arrendevole “che in taluni momenti dava l’impressione d’essere addirittura spaurito”, quasi succube del fratello, per il quale Cristina avvertiva una grande tenerezza.

La morte prematura di Stefano, avvenuta a seguito di un grave incidente d’auto, sembrava quasi potesse agevolare il rapporto tra Cristina e Graziano, pareva quasi che la tragedia familiare potesse ristabilire un antico equilibrio “dissolvendo per sempre i rancori, se mai c’erano stati, e se non proprio i rancori, le amarezze, i contrasti e talvolta i risentimenti”. Ma la morte non sempre risolve certe situazioni: al contrario molto spesso le aggrava, le acuisce, apre una serie di conflitti interiori, di rimorsi, di incomprensioni; ciò si manifesta soprattutto tra la madre e la figlia, una ragazza dal carattere difficile, sfiorata dalla droga, che si sentiva trascurata e poco amata. Questa l’estrema sintesi della trama del romanzo.

L’autore, con grande maestria, riesce a dare dignità e valenza letteraria ad una vicenda tutt’altro che originale, direi quasi banale, grazie ad uno stile corposo ed elegante che incanta e irretisce il lettore amante della bella scrittura. Un vero scrittore, secondo me, è colui che sa rendere bello anche l’ordinario, il racconto della quotidianità e Michele Prisco, con questo suo libro sui vizi e le virtù di quella società borghese della provincia addormentata, a cui apparteneva e che risulta quasi sempre presente nei suoi libri, riesce nell’impresa di ridare armonia e bellezza alla pagina scritta.

Lo scrittore partenopeo (era nato a Torre Annunziata e morì in quella città che più amava, Napoli) ci racconta, in chiave psicologica e a tratti con vera suspense, una vicenda tormentata e sofferta - ambientata tra Roma e Sant’Agnello, un paese in provincia di Napoli – ci dipinge un affresco umano ed esistenziale che vede i protagonisti del suo romanzo dibattersi tra sentimenti contrastanti, conflitti interiori e difficoltà a comunicare tra di loro.

Attraverso l’indagine introspettiva  dei suoi personaggi, giocata su diversi piani temporali, tra il passato e il presente, con una grande capacità di coinvolgimento emotivo, Prisco si interroga sui grandi temi del vivere quotidiano che assillano l’uomo moderno, quali la solitudine, l’incomprensione, i difficili rapporti tra genitori e figli, l’incomunicabilità tra le persone, la vita e la morte.