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venerdì 19 dicembre 2014

Il viaggio: metafora della vita e della libertà

 
Chi non legge o non ha voglia di leggere – e sia ben chiaro che nessuno è obbligato a farlo e chi non ha dimestichezza con la carta stampata non è assolutamente inferiore a nessuno - puntella sempre questa sua mancanza, di cui un po’ si vergogna, con un alibi di ferro: “purtroppo non ho tempo”. Sarebbe, infatti, poco credibile se affermasse di non leggere per i prezzi dei libri troppo alti, considerata la variegata e ampia offerta del mercato editoriale. Per esempio, ho appena finito di leggere, in contemporanea, due libriccini di poco più di cento pagine ciascuno: un racconto intitolato “Corto viaggio sentimentale” di Italo Svevo ed il romanzo “Peter Camenzind” di Hermann Hesse. Il primo, pubblicato nel corso del 2014 dalla Newton, presenta una veste grafica davvero molto accattivante e costa solo 1 euro e 90 centesimi; il secondo, invece, è un’edizione Oscar Mondadori del 1980, trovato su una bancarella dell’usato (praticamente come nuovo) a soli 2 euro. Insomma, con meno di 4 euro (una pizza mediocre costa molto di più), ho portato a casa due piccoli capolavori della nostra letteratura, anche se poco noti al grande pubblico. E’ pur vero che a volte la bellezza della lettura risiede proprio nella scoperta dei suoi tesori.
Ebbene i protagonisti dei due libri, pur nella loro estrema diversità – da una parte il tipico personaggio inetto di Svevo e, dall’altra, il sognatore, l’amante della natura che esce dalla penna di Hesse - sono accomunati dallo stesso desiderio: viaggiare. Il viaggio quale occasione per “evadere” dall’ambiente in cui vivono; il viaggio quale metafora della vita e della libertà e quindi espressione di fuga dalle costrizioni quotidiane.
 
Un breve viaggio di lavoro in treno da Milano a Trieste è, infatti, l’occasione che aspettava da tanto tempo il signor Aghios, il protagonista di “Corto viaggio sentimentale”, un libro rimasto incompiuto a causa della morte dell’autore avvenuta nel 1928. Tipico personaggio sveviano insoddisfatto e abitudinario, questo Aghios “guardava con invidia e desiderio la vita intensa che lo circondava e respingeva” e pensava che una parte di tale malessere gli venisse dalla famiglia, perché “la sicurezza di cui si gode in famiglia addormenta, irrigidisce e avvia alla paralisi”. Perciò il viaggio programmato sarebbe stato una sorta di esperimento, un gradevole svago foriero di altri futuri viaggi, che avrebbero dovuto assicurargli incontri piacevoli e un po’ di felicità. Quella felicità che - a suo dire - non poteva nascere dalla gelida relazione con la moglie e il figlio. Lui aveva sacrificato tutta la sua vita al dovere familiare, “abbandonando i suoi cari pensieri, le sue care fantasie, il vero piacere. Se lo avessero lasciato in pace, egli avrebbe percorso il mondo, non per guardarlo, ma per trovare maggiore stimolo a staccarsene, abbellirlo e offuscarlo”. Certo, abitudinario come egli era, certamente avrebbe poi sentito il desiderio di ritornare in famiglia e “rimettersi sotto la protezione della moglie e soprattutto andare a proteggere quello scervellato di suo figlio, insomma il ritorno alla sua galera”.
E se per il signor Aghios la galera è rappresentata dalla famiglia, per Peter Camenzind (alias Hermann Hesse) il personaggio che dà il titolo al libro dello scrittore tedesco naturalizzato svizzero (il suo primo successo letterario che segna l’inizio della sua carriera) la “galera” da cui vuole evadere per conoscere il mondo è il suo paese natale, Nimikon, “un villaggetto che giace su un piano obliquo triangolare incuneato fra due propaggini montane, in riva al lago”. Questo giovane aveva avuto come educatori ed amici, oltre i libri, le montagne, il lago, gli alberi e la natura tutta, che per molto tempo gli “furono più cari e più noti degli uomini e del loro destino”; era stato talmente forte il contatto unilaterale con la terra e con gli animali che, in qualche maniera, quest’ultimi lo avevano allontanato dal consorzio umano. Allora sente il bisogno di “uscire dall’aria prosaica e deprimente” del suo paesello per la gioia di essere libero, di partire per paesi lontani “per cercare la patria futura nel regno dello spirito”. I suoi viaggi diventano un fondamento della sua vita, passa gran parte degli anni camminando per mesi e settimane in vari paesi, abituandosi a lunghe marce con in tasca pochi quattrini e un pezzo di pane, pernottando spesso all’addiaccio. Si convince di non essere nato per la vita sedentaria, ma per il vagabondaggio in terre straniere. E’ all’occorrenza diventa poeta e pellegrino, beone ed eremita.

Ma così come era successo al protagonista del viaggio di Italo Svevo, che aveva sentito il bisogno di rientrare in famiglia, anche Camenzind/Hesse, dopo la sua lunga caccia alla felicità mondana, dopo la ricerca dell’arte nelle principali città dell’Italia, della Francia e della Germania, dopo essersi abbeverato di musica e di bellezze spirituali, “i miei vagabondaggi nel regno dello spirito e della così detta cultura”, avverte l’urgenza di ritornare nel vecchio nido fra i monti e il lago, felice di aver fatto le sue esperienze di vita e con la consapevolezza che un contadino come lui non poteva, a nessun costo, diventare un cittadino e uomo di mondo.

giovedì 11 dicembre 2014

Folla e demagoghi



 
In una lettera all’amico Lucilio, Seneca così scriveva: “mi chiedi che cosa tu debba specialmente evitare. Rispondo: la folla. (…) La compagnia della moltitudine è dannosa: c’è sempre qualcuno che ci rende gradevole un vizio o, senza che ce ne accorgiamo, ce lo trasmette in tutto o in parte. Più sono le persone con cui viviamo, maggiore è il pericolo…”
Lo ammetto: anch’io evito la folla. In qualsiasi contesto venga configurata, allo stadio durante una partita di calcio o in piazza in occasione di un comizio o un concerto, in un centro commerciale durante le feste natalizie o su una metropolitana all’ora di punta, la folla cessa di essere una moltitudine di individui pensanti e diventa una sorta di miscuglio appiccicoso, nevrastenico che nulla ha a che fare con la razionalità e con l’intelligenza delle persone prese singolarmente. La folla risponde solo all’istinto, condiziona coloro che la compongono e produce reazioni stupide e incontrollabili.

Prendiamo – per esempio - la folla che, munita di bandiere, tamburi, fischietti e striscioni, gremisce una piazza per ascoltare, applaudire, osannare l’uomo politico del momento. E’ la tipica manifestazione di fede che ormai abbiamo imparato a conoscere e che si ripete da sempre: applausi, slogan, canti, evviva, insomma tutto il repertorio e il modo di esprimersi di quella marea di persone accomunate dagli stessi ideali. E proprio in queste circostanze assistiamo ad uno strano spettacolo che prevede - da una parte - un palco (in un recente passato era un balcone) da cui un demagogo arringa i presenti, cerca il loro consenso con promesse altisonanti, lusingandone anche i più bassi istinti; dall’altra, cinquecentomila/un milione di manifestanti (secondo l’organizzazione) ovvero mille (secondo la questura), che esultano e credono agli asini che volano. Il demagogo si guarda bene dal dire la verità e cerca solo di ottenere un effetto corale di giubilo, invece i cinquecentomila/un milione di disgraziati (secondo l’organizzazione) o i mille (secondo la Questura) – eccitati dall’entusiasmo generale e dalle grida di evviva - non sanno di essere stati presi in giro perché la folla di cui fanno parte offusca loro il cervello. L’ipocrisia del demagogo di turno si nutre della schizofrenia della piazza: la perfidia del primo crea l’alienazione della seconda. Ieri come oggi, fatta salva qualche differenza, la folla è sempre la stessa entità amorfa, sia quando si radunava sotto un balcone che quando si dà appuntamento in piazza. Perché, come diceva Michel de Montaigne “quando gli uomini si riuniscono, le loro teste si restringono”.
Fino a quando esisteranno dei populisti che, per governare il Paese, rincorrono il consenso e l’entusiasmo irrazionale delle folle che riempiono le piazze, attraverso promesse irrealizzabili e interventi demagogici, non credo sia possibile sperare in un miglioramento dell’attuale situazione socio-economica. L’educazione politica di una nazione si ottiene facendo sì che i suoi cittadini siano in grado di leggere, studiare, informarsi, discutere, conoscere, capire; abbiano cioè gli strumenti culturali più appropriati per poter eleggere, senza condizionamenti emotivi, chi li dovrà rappresentare nelle istituzioni e nel governo del Paese, con competenza, serietà ed onestà. Solo attraverso la conoscenza si definisce la coscienza civile di una nazione. Altrimenti avremo sempre una classe politica a immagine e somiglianza di un elettorato disinformato. Con sommo piacere di chi è stato eletto. Pertanto non basta ubriacarsi di folla con una bandiera, di qualsiasi colore, e urlare slogan preconfezionati, se poi quella folla a cui si appartiene, al momento delle decisioni, non conta più nulla. Le cose da fare non reclamano l’applauso della piazza ma azioni immediate nell’interesse del Paese.

giovedì 4 dicembre 2014

Aspettando Godot



 

Vladimiro ed Estragone, i protagonisti del libro di Samuel Beckett (1906-1989), sono due mendicanti che si incontrano per caso una sera in aperta campagna; aspettano un certo Godot, di cui non sanno nulla, non l’hanno mai visto e non sono sicuri se verrà a quell’appuntamento così strano e così assurdo. Inizia una lunga attesa, che dura poco più di cento pagine, ma che potrebbe protrarsi all’infinito. Si, perché Vladimiro ed Estragone - che vengono poi raggiunti da Pozzo, un ricco castellano che porta al guinzaglio il suo servitore Lucki - nell’attesa discorrono di facezie, sostenendo a volte cose senza senso e senza un filo logico, come in una sorta di comica ricerca introspettiva di se stessi. Si ha come l’impressione che quello strano e strampalato dialogo fra due persone così bizzarre, intervallato da lunghi silenzi, possa andare avanti senza fine, fino a consumare la vita stessa dei protagonisti, nella vana attesa di questo fantomatico Godot.
Il racconto, tutt’ora rappresentato in tutti i teatri, potrebbe essere sintetizzato con una frase di Estragone, il quale rivolgendosi al suo amico Vladimiro afferma: “Non succede niente, nessuno viene, nessuno va, è terribile”.
E’ un’attesa che sembra quasi logorare e lacerare l’animo dei personaggi, disorientando nel contempo il lettore che si aspetta, da un momento all’altro, qualche evento significativo capace di dare un senso alla storia. Ma nulla di tutto questo si verifica, tant’è che i nostri eroi alla fine sembrano stanchi di aspettare e decidono di andare via.
“Allora andiamo?” dice Vladimiro ad Estragone. “Si andiamo” dice Estragone. Ma nessuno dei due si muove, e a nostra insaputa continuano ad aspettare quel Godot, che forse potrebbe migliorare la loro infelice esistenza e liberarli da quell’attesa faticosa ed angosciante che sembra quasi una condanna senza fine.
Mi viene da pensare, dopo aver letto questo strano libro, che ognuno di noi - come Vladimiro ed Estragone - si trova sempre nella condizione di dover aspettare un immaginario Godot; un Godot che a seconda dei casi e delle circostanze, può assumere le sembianze di un “qualcuno” o di un “qualcosa” che possa, come per incanto, liberarci dalla noia del tran tran quotidiano, dagli affanni del vivere di tutti i giorni e rendere più sopportabile e felice la nostra umana esistenza. Godot è la metafora dell’amore impossibile, è l’attesa di un incontro importante e significativo ma è anche l’aspettativa di un’occasione o di un evento straordinario che possano cambiare in meglio la nostra vita. Per essere estremamente materialisti, aspettare Godot è come sperare in una vincita alla lotteria. E’ l’attesa di un sogno che raramente si avvera e si materializza che procura delusioni ed amarezze, ma che si alimenta sempre con la speranza, che è l’ultima a morire.