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lunedì 25 aprile 2016

"Le parole tra noi leggere" di Lalla Romano: il conflittuale rapporto madre-figlio



La famiglia, con il suo gravoso carico di responsabilità e di bisogni, è da sempre al centro dell’attenzione e del dibattito socio-culturale del nostro Paese. Come d’altronde è giusto che sia, visto che rappresenta il nucleo sociale fondante di ogni nazione. Si fa poi un gran parlare, sulla stampa e nelle discussioni televisive, del difficile mestiere dei genitori e del ruolo che gli stessi occupano nell’attuale società. Naturalmente si dà grande risalto anche all’educazione dei figli e al rapporto genitori-figli che quasi sempre risulta conflittuale e contraddittorio.

Anche la letteratura si è spesso misurata con queste tematiche che prendono spunto, il più delle volte, dalle esperienze personali degli stessi autori. E proprio in tale contesto va inquadrato il libro autobiografico della scrittrice piemontese Lalla Romano (morta a Milano nel 2001), dal poetico titolo “Le parole tra noi leggere” tratto da una poesia di Eugenio Montale. Con questo romanzo - che ho appena finito di leggere, e devo dire che non mi ha entusiasmato più di tanto - la Romano racconta ed esamina, soprattutto attraverso lettere e appunti di diario, il problematico rapporto che ebbe con suo figlio, a partire dagli anni dell’infanzia e fino alla sua piena maturità. Un legame molto difficile reso ancora più complesso dal peculiare carattere del figlio: scontroso e insofferente, solitario e bastiancontrario, contemplativo e libertario. Egli, secondo quanto racconta la scrittrice, aveva fatto della sua camera una sorta di tana-laboratorio, simbolo e corazza del suo isolamento e che aveva due grandi passioni: le armi e il materiale di recupero, perché solo col vecchio si può fare del nuovo, cioè creare, e lui si sentiva un artista, nonostante volesse fare il capostazione in un piccolo centro isolato. Ma contro ogni sua volontà si ritrova, in seguito, a fare l’impiegato di banca, proprio lui che aveva orrore della parola impiego, simbolo di mediocrità e di sedentarietà. Il ritratto che ne viene fuori è quello di una persona dalle forti contraddizioni, in contrasto permanente soprattutto con la madre (il padre appare assente, perché vive in un’altra città per motivi di lavoro), che aveva adottato “quella che fu poi sempre la sua divisa: essere l’ultimo”. Ma questa sua aspirazione “non era un’accettazione di inferiorità, bensì un’affermazione di singolarità”. Voleva essere l’ultimo perché non poteva essere il primo. Come quel Jakob Von Gunten, il personaggio dell’omonimo romanzo di Robert Walser, il quale non solo ambiva ad essere l’ultimo ma voleva addirittura diventare uno zero assoluto. Chissà che non avesse letto il libro dello scrittore svizzero, subendone l’influenza!

Le parole tra noi leggere, che diede molta notorietà alla Romano anche a seguito del premio Strega che si aggiudicò nel 1969, evidenzia soprattutto, con una prosa molto trasparente, il forte dissidio interiore vissuto dalla scrittrice-madre la quale, se da una parte desidera veder crescere il figlio indipendente e sicuro di sé, dall’altra appare quasi tormentata dal suo inconfessato proposito di legarlo a se stessa per tutta la vita. Lei si adopera con tutti i mezzi per conoscerlo e comprenderlo, si sforza di seguirlo e sostenerlo, ma nonostante i suoi sforzi, si ha l’impressione che le sfugga sempre, che non riesca mai a raggiungerlo.

sabato 16 aprile 2016

Non sappiamo più guardare



Non bisogna mai lasciarsi sfuggire l’occasione per ammirare la bellezza, in qualsiasi forma si manifesti ed in qualunque luogo essa si trovi. E così l’altro giorno, trovandomi a passare dalle parti di San Pietro in Vincoli (siamo a Roma), ho deciso di entrare nella basilica che custodisce il famoso Mosè di Michelangelo, simbolo della tomba di Giulio II. Volevo soffermarmi con la mente e con lo sguardo su quella straordinaria scultura marmorea che mi appare – ogni volta che la vedo – sempre di più come opera di un dio anzichè di un uomo.

Sono entrato quasi in punta di piedi, così come conviene quando ci si accosta alle cose che evocano l’eternità, e mi sono trovato dinanzi ad un gruppo di turisti stranieri (saranno stati una trentina), ognuno dei quali impugnava un telefonino a mò di macchina fotografica e tentava, con le braccia sollevate, di sovrastare gli altri. Ho notato che nessuno dei presenti ammirava con i propri occhi il magnifico gruppo marmoreo che si trovava al loro cospetto: tutti erano intenti a fotografarlo, per poterlo poi osservare entusiasti sul piccolo schermo del cellulare. Devo dire che lo spettacolo mi è sembrato, a dir poco, paradossale. Terminate le foto di rito, le stesse persone hanno iniziato a “selfarsi” girando le spalle al Mosè che, da soggetto della foto, è diventato improvvisamente un semplice sfondo alla loro ostentata individualità. Com’è noto, il Mosè volge la testa verso la sua sinistra e non nella direzione dell’osservatore che gli sta di fronte e, mentre lo osservavo, ho avuto come l’impressione che non volesse affatto guardare quella calca, che fosse quasi infastidito da quei telefonini puntati contro di lui e che rivolgesse, pertanto, il suo sguardo accigliato dall’altra parte. Narra la leggenda che Michelangelo, vista la perfezione della sua opera, abbia colpito violentemente con un martello il ginocchio del Mosè, gridando: “perché non parli?”. Se avesse potuto farlo l’altro giorno, chissà cosa avrebbe detto a quei visitatori colpiti dalla sindrome da macchina fotografica.

Stiamo formando una generazione che non sa più guardare la realtà con i propri occhi e che non sa più vivere senza un supporto elettronico. Con l’avvento dei cellulari, soprattutto i giovani appaiono sempre di più affetti da bulimia fotografica acuta, che li costringe a riprendere qualsiasi cosa si trovi nei loro paraggi, che si muova o stia ferma. Le foto ricordo, che in qualche maniera sostituiscono la memoria e soprattutto lo sguardo, testimoniano non tanto curiosità e interesse culturale, quanto la loro rituale presenza in un determinato luogo. E allora succede che non è importante soffermarsi più di tanto davanti alla bellezza e alla maestosità del Mosè di Michelangelo nella Basilica di San Pietro in Vincoli, ma conta, invece, potersi mostrare ai suoi piedi attraverso un selfie.

domenica 10 aprile 2016

La vita agra di un contestatore



Luciano Bianciardi può essere di sicuro considerato uno dei più accesi fustigatori dei mali della società dei consumi e della modernità. Di lui hanno scritto che è stato il primo arrabbiato che si incontri nella letteratura italiana del dopoguerra ed anche uno  dei pochi scrittori italiani ad avere intuito in quale burrone stesse precipitando il Paese, frastornato dal cosiddetto boom economico.

Di idee anarchico-socialiste, mi ricorda in qualche modo lo scrittore e filosofo francese Albert Caraco, morto suicida lo stesso anno in cui morì Bianciardi; anche il pensatore transalpino, in un suo celebre libro intitolato “Breviario del caos” – in una maniera molto più dura e nichilista -  muoveva una feroce critica alla civiltà consumistica dell’Occidente, con tutte le sue contraddizioni, le sue ingiustizie, i suoi falsi idoli e si scagliava con parole violente contro le città, sempre più disordinate e invivibili, diventate i nostri incubi quotidiani, soffocate dal frastuono e dal tanfo.

Il libro di Bianciardi prende lo spunto da una vicenda realmente accaduta negli anni 50 in un paesino della provincia di Grosseto (lo scrittore era appunto di Grosseto), dove 43 operai di un’industria chimica trovarono la morte all’interno di una miniera di lignite, a seguito di una esplosione causata dal mancato rispetto delle norme di sicurezza. Il protagonista, deciso a vendicare le vittime del grave incidente, si trasferisce a Milano con l’intento di far saltare con la dinamite il palazzo dove ha sede la dirigenza dell’industria. Consegue un lavoro come traduttore in una casa editrice (nel frattempo dovrà pur vivere) e accarezza l’idea di poter trovare anche degli alleati - tra gli operai e gli impiegati che abitano la grande città -  per portare a termine il suo progetto dinamitardo contro il potere. Ma presto dovrà arrendersi a quest’idea rivoluzionaria perché anche lui verrà ingabbiato nei ritmi alienanti della metropoli, come già era successo ai suoi abitanti. Attraverso questo suo fallimento riconosce che l’epoca degli anarchici è storicamente superata e che i colpi di mano isolati non hanno mai avuto seguito; la lotta è delle masse, ma le masse che abitano la città sono interessate ad altro, sono attratte dalle facili illusioni del nascente consumismo.

In questo libro - scritto con sferzante ironia, ma anche con piacevole eleganza - ritroviamo tutti quei temi che verranno poi ripresi dai giovani contestatori della società borghese e consumistica degli anni successivi al boom economico, quali l’alienazione e la solitudine delle folle metropolitane, il caos del traffico automobilistico, la ripetitività sconsolante del lavoro d’ufficio, il rifiuto del “sistema città”.

 

venerdì 1 aprile 2016

La falsa buona letteratura



Credo che la libreria sia uno dei pochi esercizi commerciali che non espone in vetrina il meglio che ha, ma solo le ultime novità del mercato editoriale, che spesso rappresentano il peggio della produzione. Tuttavia, non riesco a passare davanti a nessuna di queste cattedrali della cultura senza fermarmi a guardare i libri che mette in mostra. La cosa che salta immediatamente agli occhi è che la maggior parte degli autori in vetrina è costituita da facce famose dello spettacolo, nani e ballerine della televisione di stato, i cui “capolavori” sono presentati come regali buoni per tutte le occasioni.  Non dico che vorrei vedere in vetrina “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni o “La Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso – lungi da me tale idea - però incrociare ogni volta l’ultimo libro di Bruno Vespa o di Fabio Volo oppure scorgere l’ennesimo ricettario di Benedetta Parodi o di Antonella Clerici – lo confesso - mi provoca fastidio misto a sconforto. Questi scrittori non scrittori che occupano così tanto spazio io non li sopporto più. Ho l’impressione che gli editori abbiano ormai perso la memoria, o facciano di tutto per distruggerla, visto che da alcuni anni privilegiano solo i “nuovi autori” (sempre e comunque), possibilmente noti al grande pubblico televisivo per meriti che non siano quelli letterari, e che abbiano fatto passerella almeno una volta da Fabio Fazio a “Che tempo che fa” a tessere le proprie lodi.
Ecco allora i tanti best-seller dettati dall’attualità più pressante, che durano poco ma hanno grande successo di pubblico, scritti da dilettanti allo sbaraglio che non sanno scrivere (perché fanno altri mestieri), oppure realizzano opere di scarsa rilevanza letteraria. Però sono autori che vendono bene grazie alla loro notorietà. E gli scrittori italiani che appartengono ad un recente passato, che hanno anche vinto premi importanti, che fine hanno fatto? Romanzieri come Guglielmo Petroni, Michele Prisco, Giovanni Arpino, Vittorio Gorresio, Piero Chiara, Ercole Patti, in quali anfratti delle librerie sono andati a finire? E quegli autori che hanno scritto rilevanti e significative pagine di denuncia sociale attraverso i loro romanzi come Francesco Jovine, Paolo Volponi, Anna Maria Ortese, Giuseppe Dessì, Carlo Alianello, Luciano Bianciardi, perché non si vedono più nelle vetrine delle librerie? Sono quasi tutti ingiustamente fuori produzione, finiti nel dimenticatoio, stritolati da una mediocre letteratura usa e getta che scopiazza le tematiche di cronaca (rosa, nera e gialla) simbolo indiscusso della modernità e della pochezza dei nostri tempi. Espressione di una società che vive malamente il presente, che sa poco del passato e non ha le basi per imbastire un futuro.

“In libreria si trovano i libri di carni e porci – ha detto recentemente in una intervista Raffaele La Capria – i miei non si trovano mai”. E poi ha aggiunto che “oggi c’è la falsa buona letteratura. Quasi tutti scrivono bene, qualcuno anche benissimo, ma sono senz’anima”. Ecco una definizione indovinata: “la falsa buona letteratura”, ossia una produzione letteraria artificiosa, quasi costruita a tavolino per sollecitare certe morbosità o per soddisfare la moda del momento, che dura il tempo di uno spot pubblicitario e poi muore. Senza lasciare traccia e memoria, proprio perché non ha un’anima. In linea con i ritmi frenetici dei tempi che viviamo, in una perenne rincorsa alle novità.
Eppure ci sono tanti bei libri, anche di autori poco conosciuti, pubblicati in questi ultimi dieci/venti anni (e quindi non mi riferisco solo ai classici del passato), che vengono allontanati troppo presto dai lettori, soprattutto quelli più giovani, che potrebbero apprezzarli se solo venissero ripubblicati e in qualche maniera sponsorizzati in televisione. Visto che oggi molti non sanno comprare un libro se prima non passa in TV. Come succede per qualsiasi altro prodotto commerciale.