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sabato 29 aprile 2017

Proust come Maradona



Certi libri, per la loro elevata dimensione artistica e letteraria e per la loro compiutezza e superiorità di stile e contenuto, hanno la straordinaria capacità di farti sentire davvero piccolo, perché la tua mente non sarebbe mai capace di concepirli. Sono libri che ti obbligano al silenzio e al rispetto. Penso all’Odissea; penso alla Divina Commedia; penso ai Saggi di Montaigne. Quando ti trovi al cospetto di opere letterarie universalmente riconosciute, non puoi che accettarle senza discutere, perché ti sovrastano e ti dominano. Ti piacciano o meno. E penso anche “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust, il cui titolo così suggestivo - che rimanda al tempo, il padrone predestinato della nostra esistenza - potrebbe da solo spalancare le porte dei ricordi a tutti noi. E’ un’opera immensa, senza eguali, la cui mole di 3850 pagine (cofanetto Einaudi in 8 volumi) rappresenta uno spauracchio per tutti coloro che vogliano iniziarne la lettura. Ma chi ama davvero i libri importanti ed eterni non dovrebbe lasciarsi spaventare dalla dimensione cartacea di quest’opera. E allora, abbandoniamo per un momento le insulse e facili  letture che ci vengono propinate dalle classifiche dei “più letti”, e tentiamo un approccio “alla ricerca del tempo perduto”. E’ come se un appassionato di calcio si limitasse a guardare soltanto le partite tra scapoli e ammogliati senza aver mai visto un gol o un dribling di Maradona. Proust è il Maradona della letteratura. Proust sapeva giocare in maniera divina con le parole, come Maradona con un pallone. Entrambi accomunati da una sola caratteristica: la genialità creativa.

Devo dire che dei sette volumi di cui si compone “la recherche” dello scrittore francese, ho letto solo i primi due: “Dalla parte di Swann” e “All’ombra delle fanciulle in fiore”. Ma non mi sono arreso: ho ancora tempo per continuare. Mentirei, però, se dicessi che la lettura è semplice e scorrevole; al contrario risulta impegnativa e, spesso, faticosa e richiede una dote invidiabile di pazienza. I periodi, come è nello stile di Proust, sono lunghi, molto articolati, complessi. Capita pure di doverli rileggere due volte, per poterli afferrare. I suoi personaggi sembrano statici e te li porti dietro per pagine e pagine attraverso minuziose descrizioni e dotte disquisizioni. Da questa lettura a volte ne esci distrutto… affaticato…: è come se un corpo contundente ti colpisse e ti lasciasse indolenzito. Altre volte, invece, questa spossatezza ti appaga: è come ritornare a casa, stanco ma felice, dopo aver scalato una montagna. E’ un libro che lascia un segno indelebile sul tuo spirito: ti annichilisce e ti sovrasta. Non puoi giudicarlo. Ti fa capire quanto grande sia l’autore e quanto “piccolo” sei tu di fronte a lui. E, soprattutto, ti fa comprendere perché alcuni uomini – come Proust - saranno sempre ricordati nell’eternità: per il loro ingegno, per la loro grande capacità ed abilità nel saper usare le parole.

mercoledì 19 aprile 2017

Sofferenza e felicità nella poesia



Vittorio Sgarbi è un personaggio pubblico molto controverso, amato e detestato, le cui parole rivolte ai temi politici – scritte nei suoi interventi giornalistici oppure urlate in televisione – appaiono il più delle volte bizzarre e discutibili; parole che diventano, invece, assai godibili quando riguardano l’arte in tutte le sue espressioni. Ho letto diversi suoi libri. Egli sostiene che esiste un nesso inscindibile tra poesia e sofferenza interiore, perché nessuno meglio di un poeta che soffre sa elevare in versi le sue angosce, le sue paure, i suoi patimenti.  Per la gioia di quanti amano la poesia. E allora, sembra quasi che per piacere e per attirare l’attenzione degli animi più sensibili, una poesia debba nascere da un dispiacere profondo, debba essere l’espressione di un animo inquieto e tormentato. Sembra quasi che il dolore sia materia d’ispirazione per chi si accinge a scrivere e che il poeta sia destinato a soffrire per rendere felici i suoi lettori attraverso i suoi versi.

Se Leopardi – afferma Sgarbi - fosse stato un uomo bellissimo e non quello scarto umano che tanta sofferenza gli procurava, non avrebbe mai potuto deliziarci e commuoverci con i suoi versi dedicati all’amata Silvia; se la Dickinson, sempre chiusa in casa da sola, avesse avuto alle spalle una vita tranquilla e felice all’interno di un normale matrimonio borghese, probabilmente non ci avrebbe regalato quelle pagine così toccanti, frutto della sua sofferenza. Costoro, proprio perché non hanno mai conosciuto la felicità e non hanno mai avuto una vita normale, sono riusciti ad attribuire una gioiosa disposizione d’animo alla pagina scritta, restituendo a noi la felicità attraverso la loro infelicità. Perché le condizioni difficili stabiliscono, molte volte, la base di emozioni straordinarie, perché la poesia trasmette sempre felicità, anche quando scaturisce dal dolore. Insomma, ciò che noi afferriamo in una poesia di Leopardi o della Dickinson, secondo Sgarbi, non è la sofferenza o l’intimo travaglio che sta alle loro spalle, ma l’ energia e la bellezza delle parole che ci esaltano e ci inebriano, indipendentemente dal loro contenuto di tristezza.

Vale la pena, perciò, trarre vantaggio e piacere dalla sofferta esperienza di vita di chi sa nobilitare le sue pene attraverso la poesia, dato che nessuno meglio di chi è stato infelice può darci insegnamenti di quotidiana felicità.

martedì 11 aprile 2017

Missile e coltello


di Guido Ceronetti


Il missile trasforma in vittima una città intera, il coltello un uomo per volta.

I missili non si sa mai dove vanno a finire, il coltello arriva al cuore.

Col prezzo di un solo missile, si compera un miliardo di bellissimi coltelli.

Un vero sicario si sentirebbe disonorato, messo a servire in una batteria missilistica.

Il terrore sparso facendo una quantità di rumore non produce gli effetti squisiti di un terrorismo silenzioso.

Abbiamo sperimentato ormai le limitate possibilità del missile, mentre restano intatte nell’ombra le sempre nuove applicazioni pratiche del coltello.

Un bunker blindatissimo imperforabile da qualsiasi missile, si fonde alla vista di un coltello.

Non s’impara nulla, o ben poco, dal manovrare missili, molto invece dall’esercitarsi con coltelli.

Il missile è tenuto nascosto anche agli amici, ma ai veri amici non può essere celato nessun coltello.

Per piantare il coltello ci vogliono volontà, forza e buona disposizione; intorno al missile non c’è che un mucchietto di diplomi di laurea con lode.

Dio conosce chi uccide di coltello, ma i tecnici di missili neppure per lui hanno un nome.

Dio non dimentica le vittime dei coltelli, ma le vittime di missile svaporano dalla sua memoria.

Dio si sente sfidato da chi alza il coltello su un altro uomo, ma nella partenza di un missile verso il bersaglio non indovina nessuna volontà di provocarlo.

Satana s’immischia sempre in affari di coltello, ma abbandona i missili al loro nulla.

In un mazzo di fiori si può occultare benissimo un coltello, ma un missile infiorato è inimmaginabile.

Una potenza mondiale veramente intelligente lascia arrugginire i suoi missili teleguidati ma terrà pronti sempre, bagliori nella notte, immensi, temutissimi, arsenali di coltelli.

Un uomo che cammina di notte si guarda dai coltelli, ma pensa ai missili con perfetta indifferenza.

Sempre si racconteranno storie di coltelli; i missili esistono ma nessuno ne narra storie.

Si è orgogliosi di essere sopravvissuti a ferite di coltello, ma nessuno mostra cicatrici da missile.

Chi s’inquieta del futuro, ha da temere, più che missili, i coltelli.

martedì 4 aprile 2017

Un premio Nobel dimenticato: Grazia Deledda



“Siamo canne, e la sorte è il vento”

Non avevo ancora letto nessun libro di Grazia Deledda, finora l’unica scrittrice italiana ad aver vinto - nel 1926 - il premio Nobel per la letteratura. Icona della nostra identità culturale nel mondo, sebbene abbia trattato sempre tematiche legare alla sua terra d’origine, l’autrice sarda appare dimenticata ed emarginata nel panorama culturale dei nostri tempi.
Leggendo “Canne al vento” (Oscar Mondadori, 1977), forse il suo romanzo più noto, ho potuto colmare questa mia grave lacuna letteraria, che mi portavo dietro dai tempi del liceo, quando la Deledda rientrava nei programmi scolastici. Devo dire, peraltro, che le vicende ivi narrate mi hanno riportato al libro Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi, a conferma di una tesi molto suggestiva secondo cui ogni libro racchiude tra le sue pagine un altro libro, per via di palesi analogie narrative. Tant’è che mi viene spontaneo domandarmi - nel caso specifico - se lo scrittore toscano, nel costruire lo schema narrativo della sua opera, non si sia ispirato al romanzo della Deledda. In entrambi i libri, infatti, la storia ruota intorno a tre sorelle (zitelle) e al loro esuberante nipote (figlio di una quarta sorella deceduta); questo nipote, facendo irruzione improvvisamente nella loro grigia e monotona esistenza, oltre a sconvolgere quel quieto vivere, le porterà al dissesto finanziario. Naturalmente i luoghi in cui sono ambientate le storie sono differenti: nel primo caso ci troviamo in un sobborgo di Firenze nei primi anni del ‘900, in Canne al vento, invece, scorgiamo la Sardegna arcaica di fine Ottocento. Così come diverso appare lo stile narrativo: ironico e velato di malinconia crepuscolare quello di Palazzeschi, realistico e lirico lo stile della Deledda. I due narratori, tuttavia, sembrano accomunati da uno stesso obiettivo: raccontare un mondo al femminile, chiuso e insofferente al cambiamento, in cerca comunque di uno sbocco alla sua perenne insoddisfazione.
Le sorelle Pintor – questo il nome che esce dalla penna di Grazia Deledda in Canne al vento - sono discendenti di un’antica e nobile famiglia decaduta. Esse vivono chiuse dentro casa in attesa di mariti degni del loro lignaggio, asservite a un padre-padrone che le tratta come schiave. “E come schiave esse dovevano lavorare – leggiamo nel libro - fare il pane, tessere, cucire, cucinare, saper custodire la loro roba: e soprattutto non dovevano sollevare gli occhi davanti agli uomini, né permettersi di pensare ad uno che non fosse destinato per loro sposo”. E proprio per liberarsi da quella oppressione, una di loro era fuggita dalla casa paterna, alla ricerca di libertà e indipendenza e non si era più saputo nulla di lei. Il fatto aveva destato vergogna e scalpore perché mai nel paese era accaduto uno scandalo uguale, mai una fanciulla nobile e beneducata era fuggita così.
Il romanzo è gremito da una variegata e dolente umanità, esposta alle dure fatiche del vivere quotidiano. Ma la figura che assume maggiore dignità letteraria, fulcro della narrazione, è sicuramente il servo fedele (Efix) che oltre a coltivare il podere, unico sostentamento della famiglia, provvede anche alla protezione delle tre sorelle. Egli nasconde dentro di sé un segreto (che poi è anche una colpa) che lo divora e lo tormenta: è l’unico a sapere la verità sulla scomparsa della quarta sorella e sulla misteriosa morte del loro padre. E con l’arrivo dal Continente del nipote (Giacinto), tutto sembra precipitare e peggiorare.

La Deledda racconta un mondo arcaico e fuori dal tempo, sorretto da uno spirito cristiano imbevuto di superstizione e di peccato, con le sue dure leggi morali; un mondo contratto nella sua secolare immutabilità e nelle sue rigide e ricorrenti consuetudini: il lavoro nei campi, le controversie e le difficoltà familiari; e poi le maldicenze del paese, le feste, i matrimoni e i balli intorno alle chiesette campestri. E in questa apparente normalità si consuma il doloroso e tragico destino di una comunità. Come canne al vento.